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Alla scoperta di Harlem nel Martin Luther Day

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Gennaio 17 2017

 di Mariagrazia De Luca

www.mariagraziadeluca.com

C’è una bella aria domenicale per le strade del “centro storico” di Harlem, in questo lunedì speciale per la comunità afroamericana del quartiere, e non solo.

Il compleanno di Rev. Dr. Martin Luther King Jr., uno dei più famosi leader e attivisti per l’uguaglianza dei diritti e abbattimento della segregazione razziale è stato celebrato oggi attraverso eventi speciali organizzati in giro per il quartiere,  soprattutto nello storico Apollo Theater ed nel Studio Museum di Harlem. Quest’ultimo, solitamente chiuso di lunedì, ha lasciato aperte le porte (a costo zero) a tutti i visitatori per la speciale occasione.

Se King non fosse stato assassinato il 4 aprile del 1968, all’età di 39 anni, ne avrebbe oggi compiuti 88″.  Penso, mentre cammino in lungo e in larco per i tre piani del museo di Harlem 

STUDIO MUSEUM DI HARLEM 

(144 W 125th St)

Interessantissimo, anche se non molto conosciuto. Le pitture dai colori  vivaci che raccontano la storia di Harlem attirano la mia attenzione, così come la sezione di fotografie rappresentati momenti cruciali della cultura afroamericana degli anni ‘70 e ‘80  e i molti riot, le rivolte in piazza per i diritti sociali ma anche contro la brutalità della polizia.

Invece, in un’altra sezione ho scoperto una cosa incredibile. Non è vero che i cowboy sono tutti bianchi! La galleria di foto dedicata ai “black cowboys”,  sfata il mito del cowboy “white” raccontatoci da tanti film Western con cui, dalla generazione dei nostri nonni fino alla nostra, vi siamo tutti cresciuti. Sì, accanto a John Wayne, Steve McQueen, Paul Newman, c’erano (e ci sono) tantissimi cowboy neri. 

La mostra testimonia di come la tradizione dei “black cowboy” sia viva tutt’oggi, anche all’interno delle grandi metropoli come New York City. Non tutti lo sanno ma ci sono black cowboys nel Queens che si occupano di addestramento di cavalli. Semplicemente, sembra che i cowboy afroamericani siano stati omessi dalla storia “ufficiale” degli “American cowboys”.

 BALSAMI PER CAPELLI E “BRAID”, TRECCINE “AFRICAN STYLE”

Ho deciso poi di farmi una passeggiata sulla 125th street, conosciuta come Martin Luther King Blvd, approfittando del clima piacevole che questo giorno di festa mi sta regalando dopo la bella nevicata dei giorni passati. Mentre cammino tra le bancarelle che vendono balsami speciali per capelli ribelli e incensi dai più esotici odori, una signora sulla cinquantina,  seduta davanti a un negozio di parrucchiere, e vestita con abiti africani tradizionali, mi chiama, facendo un cenno con la mano. Mi avvicino e mi da’ un biglietto da visita, con raffigurate capigliature da donna con trecce di ogni stile.

Io sorrido, e le faccio capire che sì, mi piacerebbe sperimentare ma non so se sia davvero il mio genere. “You are beautiful with braids, I make it to you”. “Thanks, thanks… another day”. Cerco di farle capire che non ho tempo, ma lei insiste “call me, call me” e neppure mi vuole dire quanto mi verrebbe a costare e dove si trova il negozio. Ho l’impressione che il negozio sia la sua propria casa, perché indica l’entrata del palazzo. “Call me, call me”. Yes, un altro giorno, le rispondo e la saluto. Continuo a guardare il biglietto da visita. Sì, magari un giorno… per sentirmi al 100% integrata nel quartiere. Rido tra me e me.

 

 La mia attenzione cade poi su delle  t-shirts vendute da un ragazzo dai lunghi capelli rasta e dal sorriso contagioso. La maglietta di Martin Luther King, quella di Malcolm X, di Bob Marley, di Nelson Mandela, Prince e anche di Obama sono l’una accanto all’altra, ribadendo una volta ancora come Harlem sia la patria simbolica di tutti gli “afroamericani”, non importa se nati in America come Obama, o in Jamaica come Bob Marley, o se non sono originari di New York come Prince che è nato a Minneapolis.

Mi ricordo quando pochi mesi fa, in seguito proprio alla morte di Prince, tutto il quartiere si era riunito per rendere un tributo al cantante. African Square, di fronte alla statua di Adam Claytol Powell, uno dei primi afroamericani che siano entrati attivamente in politica nel Congresso, era piena zeppa di gente. Vi dico la verità, ero una delle poche persone considerate “white”, e mi sono esaltata all’idea di essere capitata nel bel mezzo di una manifestazione spontanea, non turistica. Ho percepito un’energia, un amore autentico per Prince da parte degli abitanti di Harlem, e anche dalle persone venute in occasione per il concerto dai vari borought, Brooklyn, Queen o Bronx. E ballavamo tutti insieme al ritmo di Kiss

You don’t have to be rich
To be my girl
You don’t have to be cool
To rule my world

Lo stesso giorno hanno aggiunto la targa in sua memoria, all’entrata dell’Apollo, accanto a tutti gli altri grandi artisti passati per questo tempio della musica. 

Tuttavia, Jane, una mia amica che vive ad Harlem, nata in Namibia, cercava un giorno di spiegarmi la differenza tra afroamericano e neroamericano. Lei si definisce un’afroamericana, ossia una persona immigrata a New York ma nata in Africa, che ha imparato l’inglese “americano” qui (nonostante in Namibia la lingua ufficiale sia l’inglese)  e che tiene ancora un forte accento “esotico” e parla benissimo il dialetto del suo paese, l’oshiwambo. Lei si sente a casa qui ad Harlem, ma mi confida che non sempre gli afroamericani (nati in Africa) vanno d’accordo con i neroamericani (nati in America) che sono qui da tante generazioni, e non sanno neppure il paese di provenienza dei loro antenati. Lei si è sentita discriminata, mi ha raccontato. Io allora ho capito che vivere a New York significa confrontarsi con tante culture, e il tema dell’identità è molto delicato e complesso, soprattutto per chi non è abituato a tanta varietà umana.

“Io preferisco il termine afroamericano, mi piace l’idea che esista questa radice comune antica, e che il passato in qualche modo riviva nel presente senza essere dimenticato.” Le ho detto, e Jane ha sorriso. Ho sentito che in fondo era d’accordo con me.  

APOLLO THEATER – INCONTRI 

Davanti all’Apollo Theater dei signori vestiti con abiti eleganti mi danno una locandina che pubblicizza un evento in onore di Muhammad Ali che si terrà alle Nazioni Unite. “Where are you from? Sicily? Milan?” mi chiede uno dei due, sorridendo. E io che pensavo di sembrare del posto… (tra me e me). “Roma”, rispondo ai due signori. “Ah, Rome! Italy, Italy! I love Italy, good food!” I due se ne vanno poi, raccomandandomi pero’ di partecipare all’evento e di portare come me anche TUTTI gli amici italiani. Ecco, andiamo tutti, amici del Il mio viaggio a New York. Ci sarà la moglie e la famiglia di Ali. www.untributes.com 

 

 

Ogni volta che passo davanti all’Apollo mi immagino come poteva essere ai tempi in cui Ella Fitzgerald vi ha debuttato, nel 1934, quando lei aveva appena 17 anni. E pensare che quando ha aperto i battenti, nel 1913, l’Apollo, era una venue per solo bianchi, a cui i neri non avevano accesso. In quei tempi ad Harlem vivevano tanti bianchi, mentre i neri sono iniziati ad arrivare in massa attirati da affitti piu’ accessibili da mitdown e downtown nei primi decenni del 1900. Negli anni ’20 la popolazione nera e’ aumentata in modo vertiginoso: da circa 80.000 ad oltre 200.000. Negli anni trenta il teatro ha quindi cambiato politica aprendo le porte ai tanti artisti afroamericani. Non a caso quel periodo è conosciuto come Harlem Renaissance, per la quantità di artisti di colore che brillavano in ogni campo, dalla musica, alla poesia, alla pittura.

VETRINE, PARRUCCHE, BANCARELLE… 

 

HOTEL TERESA

Ho continuato a camminare sulla 125th street in direzione di Adam Clayton Powell Blvd, fermandomi un attimo sotto l’hotel Teresa, il cui proprietario, un tedesco immigrato ad Harlem, avendo avuto due spose di nome Teresa, aveva deciso di dare al suo albergo quel preciso nome di donna. Che originalità, mi sono detta quando l’ho saputo. Ma poi ho cambiato idea:  in questo modo entrambe le donne pensano che l’hotel sia dedicato a sé, e nessuna si offende. Questo immenso palazzo, oggi sede di uffici e compagnie, per tanti anni ha ospitato musicisti ed artisti che andavano a suonare all’Apollo, ma anche politici del calibro di Fidel Castro.

Ci sono tante leggende riguardanti il motivo per cui Castro, durante il suo viaggio a New York nel 1960, ha deciso di alloggiare all’Hotel Teresa con il suo entourage, abbandonando quello di mitdown che lo ospitava precedentemente. Alcuni dicono che forse Castro e i suoi fumavano troppi sigari buttando cenere su tutti i tappeti, e avevano questa abitudine di tenere galline vive in giro per l’hotel. C’è chi dice che l’albero di mitdown gli abbia chiesto una cifra esagerata per il soggiorno, o forse la verità e’ che Castro si sentiva più amato ad Harlem tra gli afroamericani, e simpatizzava per le loro lotte, quando invece in generale gli americani temevano il “nemico” comunista.

Oltre a Fidel Castro, chi altro ha dormito nell’Hotel Teresa?

Muhammad Ali, Louis Armstrong, Ray Charles, Jimi Hendrix, Malcolm X (che aveva qui il suo quartier generale), etc. 

I NOMI “AFROAMERICANI” DELLE STRADE

Arrivo a Malcolm X Blvd, chiamata anche Lenox Avenue. Se cercate su google Lenox, e vi esce Malcolm X, no preoccupatevi, stiamo parlando della stessa strada. La strada ha due nomi perchè quello originale, Lenox, apparteneva a un proprietario terriero di origini europee, ed è stato affiancato dal nome dall’attivista afroamericano, Malcolm X, a seguito della sua uccisione a West Harlem nel 1965. D’altronde in questo crocicchio di strade attorno all’Apollo, le avenue cambiano nome in onore di personaggi afroamericani storicamente importanti, ma anche cantanti e artisti. Sapevate che esiste anche James Brown way?

SYLVIA’S 

(328 Malcolm X Blvd)

Mi fermo davanti al ristorante Sylvia’s, indecisa se entrare o no. Silvia è un’afroamericana conosciuta come la Regina del soul food, la cucina tipica del sud degli Stati Uniti. E’ talmente un mito, The queen of the soul food, che le hanno dedicato anche il nome della strada. 

Lei aprì questo ristorante negli anni ’60 e credetemi, è molto raro che un ristorante resti attivo per tutti questi anni, visto che di solito gli esercizi chiudono piuttosto presto a causa della concorrenza agguerrita. Il menù è invitante ma anche per stomaci ben forti. Pollo fritto, fegato di pollo fritto… 

 Sbircio dentro e vedo una fila e tanti turisti. Decido che non vado, voglio un luogo più autentico. Ciao Silvia, ci vediamo in un giorno ordinario. Per oggi, buon compleanno Martin Luther King.

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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