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Cosa ci spinge a lasciare tutto per venire a New York?

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Luglio 13 2017

Me ne sarei andato dall’Italia comunque. Anche con la disoccupazione bassa, anche se avessi avuto mille  opportunità, o se l’Italia fosse stato il regno dell’ ottimismo. Me ne sarei andato  per vocazione, per follia forse, o per scoprire  semplicemente cosa si nasconde oltrele colonne d’Ercole. Me ne sarei andato via anche dalla Germania o dalla Francia, me ne sarei andato anche se fossi nato nel migliore dei mondi possibili. Non è questo il punto.

E l’avrei fatto per una semplice ragione: per cercare una strada, per trasformare la linea retta di una vita in una deviazione imprevedibile. Quando mi chiamano per intervistarmi, affinché racconti la mia storia, già so qual è il “canone”. Il canone è sempre lo stesso: giovane (in gamba) che se n’è andato dall’Italia per mancanza d’opportunità e ha avuto successo all’estero. E’ un racconto in parte vero, ma occulta un’altra verità: io le opportunità in Italia non me le sono mai cercate. Ho sempre volto lo sguardo alle grandi metropoli perché mi piacciono. New York è un laboratorio sperimentale dove la creazione raggiunge vette altissime. E io esattamente dentro quelle vette volevo stare,  avere uno sguardo verso un’orizzonte  ampio, molto al di là del mio orticello.

Nulla mi era chiaro le volte in cui ho lasciato l’Italia. Né la prima volta per andare in Venezuela, né la seconda per andare a New York.  Eppure non avevo dubbi: andava fatto, punto.  Anche quando a Caracas le polveri della notte si alzavano e tutto diventava terrore. Anche in  quel terrore io trovavo casa.

 Ma avevo 20 anni, ero felice della mia incoscienza: non avevo una famiglia da mantenere, avevo voglia di divertirmi (esatto, avete capito bene. Non avere una fidanzata della mia stessa città, ma divertirmi), di scrivere. Avevo aperto un blog, e mi chiamò Panorama per scrivere d’America Latina.  A ventinque anni scrivevo su Panorama. Ero felice così. Avevo rimosso il mio passato di laureato in Giurisprudenza. E male che andava potevo sempre tornare a Salerno. La terra delle origini. Ma a Salerno non potevo rimanere, e lo sapevo.

Da studente universitario mi si era messo in testa il  titolo di un libro, come un tarlo che scava e scava e scava.  Erano le memorie di Pablo Neruda, raccolte in un libro unico: Confesso che ho vissuto. Punto.  Che titolo! Che frase bellissima. Confessare a se stesso di aver vissuto, di non aver sprecato la propria traiettoria di vita per paura, per pigrizia, o per assecondare gli altri.

Spremuto fino alla fine il limone, spolpato di tutto il succo, la realtà è molto semplice. Non c’entra l’Italia, non c’entra la politica, non c’entrano le opportunità che mancano. C’entra solo una cosa: che vuoi farne della tua vita? Chi sei tu. E se questa domanda ce la facciamo, e non sappiamo rispondere, abbiamo messo il primo tassello per deviare quella linea retta.

Molte delle risposte le ho cercate nelle sbavature e nelle imperfezioni, nella mancanza di abbronzatura d’estate, nella camminate solitarie nella città. A 23 anni mi sono laureato in giurisprudenza per senso del dovere, con apatia. Ma dopo ho avuto terrore: era proprio quello che volevo? Doveva andare proprio così la mia vita? Come tutti pensavano? Avrei dovuto fare un concorso pubblico? O emigrare al Nord? Dovevo trovarmi un lavoro all’Agenzia dell’Entrate? Mi sarei dovuto sposare con una compagna dell’università? E poi cosa? Fare un mutuo per acquistare un appartamento, avere un figlio, forse due. Fare il padre, il marito? Fare la partita del calcetto il giovedì? Una cena con gli amici il sabato? Le vacanze al mare. Ma la domanda principale era: “Era questo quello che volevo?”. Io, non gli altri.  Era questa la felicità a cui dovevo ambire? Chiaramente non lo era e lo sapevo benissimo, ma cosa c’era al di là del le colonne d’Ercole? Quanto era diverso il mondo oltre Salerno- Reggio Calabria?

Nel contesto in cui sono nato, nella città in cui sono cresciuto,  quello che contava era sistemarsi in un modo o nell’altro, senza dare troppa importanza alle nostre inclinazioni. La facoltà di Giurisprudenza era lo specchio di questa cultura della sopravvivenza. Dava, si diceva, maggiori opportunità, soprattutto nella burocrazia di Stato. Ma le cose stavano cambiando attorno a noi, quei posti di lavoro stavano diminuendo. Alcuni non se ne accorgevano, io me ne ero accorto. Bisognava inventarselo il futuro, guardando oltre. Ho guardato oltre.

Quella linea retta che sembrava un destino ineluttabile l’ho piegata con piccole forzature. Prima l’Erasmus, poi il Venezuela, in quella ricerca folle di una propria dimensione, cucita su misura. Bisogna danzare con l’ignoto, esserne terrorizzati e stimolati. Includerlo nella nostra vita, accettare in fondo la fragilità dell’esistenza. Solo così si raggiunge quella leggerezza che ti permette di rischiare tutto, senza paura.

 Ho vissuto nell’ignoto per tanto tempo,  senza sapere cosa avrei combinato della mia vita, una sensazione che mi ha accompagnato fino a 34-35 anni. Gli altri mettevano su famiglia, e io vagavo tra diversi continenti. Poi è successo, è successo qualcosa che a tutti dovrebbe succedere: i mille incastri della vita si sono incastrati bene, e ho trovato un cammino. Quindi questa è la mia conclusione: la vita merita il massimo, e quel massimo significa un’unica e bellissima cosa: Cercare te stesso. Puntare sulle proprie inclinazioni, sperimentare. Andare oltre ciò che è noto. Non avere fretta di metter radici. E ricordare che ovunque ci sarà sempre un terra pronta ad accoglierti: che sia quella delle origini o quella dei sogni.

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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