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Ecco perché sono andato via da Salerno, e sono a New York

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Febbraio 15 2020

Il punto è che eravamo smarriti. Vagavamo nei corridoi dell’Università di Salerno, con la sensazione che tutto sarebbe stato troppo difficile. Volevi fare l’avvocato? Ma ce ne sono troppi. Il Magistrato? Ma il concorso è difficile, notaio non ne parliamo proprio. Il giornalista? Impossibile. Concorsi pubblici? Sono sempre meno. Questo è il clima di sfiducia se nasci in una città del Sud Italia, con la sensazione perenne che tutto ti sarà precluso, e la consapevolezza che dal futuro è meglio non aspettarsi granché. Pagavamo anche uno scotto familiare. Senza una famiglia importante alle spalle, non c’era la minima possibilità di successo. L’unica fiammella accesa era la bravura e il talento, con la sensazione che non sarebbe stato sufficiente, almeno non nella terra in cui sei nato.   Eravamo migliaia a studiare all’Università di Salerno, negli anni ’90, molti studenti venivano dalla Calabria e dalla Basilicata, tantissimi a Giurisprudenza nella speranza di una tanto desiderata ascesa sociale.

Mi sono sempre chiesto le ragioni di tale afflusso sproporzionato, e ne ho trovate due, che sono una cantilena che si ripeteva di famiglia in famiglia. “Giurisprudenza ti apre più porte”, dicevano tutti così, nell’illusione che i concorsi pubblici avrebbero assorbito tutti. E poi l’idea strampalata, tipica della provincia, che laurearsi in Giurisprudenza ti dava un certo status, per cui al bar ti chiamavano avvocato, e tu ti sentivi felice. Le altre lauree, tipo Lettere o Scienze delle comunicazioni, non erano la stessa cosa. Vivevano una strana stigma sociale, come fossero percorsi facili per gente poco intelligente.

Le ragioni di questo mito di “Giurisprudenza” sono semplici. Nel Sud Italia, soprattutto negli anni successivi al boom economico, chi non era emigrato, aveva trovato riscatto sociale grazie al posto nella pubblica amministrazione. Avere due stipendi da impiegato statale a Salerno (o in Calabria, in Basilicata) significava vivere discretamente, quindi i genitori proiettavano sui figli questa loro “percezione” e li spingevano a studiare Giurisprudenza, che è la laurea per eccellenza dei concorsi pubblici.   Si pensava che sarebbe stato così per sempre, anche se nel frattempo i concorsi pubblici diminuivano, e dopo gli anni ’80 il grosso debito pubblico aveva chiuso i rubinetti della pubblica amministrazione. Ma la percezione, si sa, conta più della realtà, e ci porta a fare scelte sbagliate.

Ma c’è una questione ancora più importante, che fa parte del nostro immaginario di provincia. In una città piccola come Salerno l’élite non era formata dagli imprenditori o capitani d’impresa, ma dall’avvocato, il magistrato, il notaio, il politico, o da dirigenti pubblici. Quindi a quello si aspirava, e per arrivare a quello c’era una sola laurea possibile: Giurisprudenza. Quindi mettiamola così: studiavi legge e se ti andava bene diventavi élite cittadina, tipo un avvocato, oppure qualche concorso pubblico prima o poi l’avresti vinto. Si ragionava così, anche se sapevamo non era assolutamente così, perché tutto stava franando attorno, e lo sentivamo.

Ma c’è di più: dentro di noi stavano emergendo nuovi desideri che non erano quelli dei nostri genitori: il mio, per esempio, era conoscere mondi lontani.

Ricordo una cosa. Soprattutto il Notaio era visto come un semidio dell’Olimpo, con tanta ammirazione anche se ben pochi capivano cosa facesse veramente, ma guadagnava bene. E gli imprenditori? Perché non era tra i nostri desideri fare impresa? Uno Stato vessatorio ci aveva fatto percepire gli imprenditori e i commercianti come mezzi criminali. In una città piccola come Salerno gli imprenditori veri erano troppo pochi per essere centrali nel dibattito cittadino. Che io mi ricordi, ai miei tempi, l’unica impresa degna di nota era la pasta Antonio Amato che tra l’altro fallì. C’erano invece tanti commercianti, di cui si parlava sempre in maniera dispregiativa: gente incolta, grossolana che evadeva le tasse. 

In un clima di terrore imprenditoriale, non emergeva proprio la voglia di fare impresa, in famiglia non te lo diceva nessuno. Né i genitori, né gli zii, né i cugini, né i nonni. Mia mamma voleva facessi il magistrato, mia nonna il medico. Stop.  Perché assumersi il rischio imprenditoriale per poi esser trattato male, essere vessato di tasse che avrebbero dovuto mantenere il grande carrozzone pubblico? Meglio un concorso pubblico, e uno stipendio fisso. Ora è diverso, con i social siamo a contatto con realtà lontane, si è aperta la mente. Ma prima, ai miei tempi, l’unica realtà che conoscevamo era il centro di Salerno e il nostro quartiere, era l’inizio e l’origine del nostro mondo, insieme alla Tv e ai giornali di Roma e Milano.  E in quel contesto era totalmente assente la cultura imprenditoriale, al punto che io la possibilità di fare l’imprenditore l’ho scoperta solo arrivando a New York, prima non ci avevo mai pensato. Occhio e croce non sapevo neanche cosa fosse un’impresa.

Ma il problema più grave era culturale: l’individuo era degradato a mero meccanismo della società. Nella scelta dell’Università, infatti, non interessava a nessuno cosa ci piacesse fare veramente, perché bisognava esser concreti e Legge era la cosa più concreta possibile. Chi eravamo noi? Quali erano le nostre inclinazioni? Questa cosa era semplicemente non degna di nota. Altrimenti forse avrei studiato altro, non Giurisprudenza.  Anche il rapporto con la ricchezza era contraddittorio, certo aspiravamo a migliorare la nostra situazione economica, ma ci interessava di più avere le ferie pagate, le malattie, orari di lavoro, e la sicurezza di non esser licenziati. A cosa serviva spezzarsi la schiena dodici ore al giorno, per un sogno. E poi troppa ricchezza veniva vista con un misto d’invidia, sospetto, al punto che se uno dal nulla aveva fatto i soldi, non c’era nessun termine positivo per indicarlo, se non “cafone arricchito”. Insomma fare troppi soldi era, in un modo o nell’altro, quasi peccato. Anche in questo caso mi son chiesto perché, visto che negli Stati Uniti non è così, e ho trovato questa risposta: dipende dalla radicata cultura cattolica (cattocomunista) che era egemonica all’epoca della nazione liberata dal fascismo, e aveva sempre ritratto la ricchezza e il denaro come qualcosa di cui diffidare, diabolico, in fin dei conti da allontanare come il maligno, salvo poi desiderarlo in gran segreto. Perché tutti, nessuno escluso, dentro di sé custodiva un desiderio di ricchezza. Ma bisognava essere ipocriti: fare le cose di nascosto, non ostentare troppo per non suscitare invidia. Bisognava fingere che le cose andavano perennemente così e così, altrimenti venivi visto male. Bisognava, in fin dei conti, non essere mai troppo felice della propria vita.

Questo è il clima in cui ho vissuto, quello in cui non c’era alcuna speranza, e per evadere mi rifugiavo nella letteratura, nello studio, e nell’illusione che esistesse un posto lontano, immaginario, in cui i miei sogni sarebbero diventati realtà, e dove magari avrei potuto scrivere un romanzo ed essere pubblicato da una casa editrice importante. Poi questo posto l’ho trovato, e si chiama New York. (Ed anche il romanzo l’ho scritto, che esce ad aprile).

New York è stata una rivelazione, perché finalmente per la prima volta sono venuto a contatto con un ambiente diverso, che ha rivoluzionato il mio modo di pensare. E pian piano, giorno dopo giorno, con i tanti esempi che vedevo da vicino, mi ha convinto che anche io, ragazzo vissuto tra i libri a Pastena, potevo cambiare il mio destino, e da persona formata per essere un impiegato pubblico, potevo diventare qualcosa di diverso, far emergere la mia individualità con passioni, inclinazioni e difetti. New York mi ha insegnato il bello della società dei consumi, a liberarmi dal senso del peccato cattolico, ad esser felice senza dover nascondermi,  e cosa più importante: mi ha insegnato a fare impresa, a costruirmi il futuro con le mie mani in una terra dove non conta di chi sei figlio, perché nessuno è figlio.

Instagram: Piero Armenti

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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