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Vi racconto com’è vivere il Superbowl

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Febbraio 7 2020

Il vero grande problema è il prezzo del biglietto, ma è anche la ragione per cui è il Superbowl è il Superbowl. Un evento sportivo con un’aura mitica, per cui al solo pronunciarne il nome tutti drizzano le orecchie. “Davvero sei stato al Superbowl”. Lo dico subito, il prezzo che ho pagato è fuori da ogni logica: 6.400$. E se il giorno prima lo avessi rivenduto quel biglietto, me ne avrebbero dati circa 8500$. Cioè c’era gente che per quel posto era disposta a spendere quasi diecimila dollari. Non credo esista nulla di simile in Europa, neanche la finale mondiale arriva a tanto. Ma il prezzo del biglietto è solo una delle tante eccentricità di questo evento, l’altra è che riguarda uno sport, il football americano, che si gioca a questi livelli solo negli Stati Uniti, e infine l’ultima eccentricità: uno spettacolo memorabile durante l’intervallo. Nel mio caso sono stato fortunato, si sono esibite due artiste che amo: Jennifer Lopez e Shakira. Non potevo chiedere di meglio. Ma non è un mistero che molti artisti vedano come culmine della propria carriera cantare al Superbowl: o nello show dell’intervallo, o l’inno prima che inizi la partita. Io ho ascoltato l’inno cantato Demi Lovato.

Chi sta a casa si gode anche gli spot televisivi, che dallo stadio non si vedono. Per trenta secondi le aziende pagano 5.600.000 di dollari, e raggiungono un pubblico di 100 milioni di persone, totalmente inserite nella società dei consumi, e che spendono. Perché gli americani spendono, ed anche parecchio. Se non fosse per questa vocazione alla spesa, difficilmente il prezzo del biglietto per il Superbowl sarebbe arrivato a tanto.

Ne vale la pena? Me lo sono chiesto prima di acquistare il biglietto, e devo dire che non è stata una scelta facile. Son tanti soldi. Poi ho pensato: va bene. Facciamola questa pazzia, la fai una volta nella vita, e te la ricordi per sempre, la racconti ai nipotini. Nel mio caso poi ho anche un pubblico di lettori che mi seguono su Facebook e possono essere incuriositi dal mio racconto. Quando devo fare una spesa del genere, ragiono così. Mi chiedo se lo voglio veramente. Se la risposta è sì, vado alla seconda domanda. Ce li ho questi soldi? Se la risposta è ancora sì, vado alla terza domanda. Potrei usare questi soldi per qualcosa a cui tengo di più? L’ultima risposta è quella più difficile da dare, quella da cui nasce il conflitto, ma alla fine io ci tenevo davvero al Superbowl.  Quando sono uscito dallo stadio, alla fine della partita, la mia percezione è cambiata. Non solo ne è valsa la pena, ma col senno di poi uno spettacolo del genere l’avrei pagato anche di più. Mi ha emozionato dall’inizio alla fine, mi ha contagiato di un’energia che non vi so spiegare, e proprio il fatto che l’evento sia così unico e inaccessibile, mi ha fatto sentire parte di una piccola élite di 60 mila persone, presenti allo stadio, nei panni delle quali un terzo degli americani- quelli che l’hanno vista in TV- vorrebbe stare. Eravamo lo 0,06%. Perché è vero, l’esclusività dell’evento, data dal prezzo, contribuisce alla magia e alla suggestione. Funzioniamo così noi esseri umani: se una cosa è inaccessibile, ci attrae di più. Il mercato del lusso, che è superfluo, si basa su questo. Ha un senso un orologio Richard Mille da centomila dollari? Nessun senso logico, se non l’ambizione di essere parte di una élite, e il piacere che questa sensazione ti provoca.

Qualcuno dice che questo significa essere superficiali, e coglie una parte della verità. Ma ce n’è un’altra su cui io mi focalizzerei. Molti lavorano duro per emergere, e quindi per continuare a motivarsi si regalano piccole gioie: che sia un bel viaggio, una giacchetta Fendi, un orologio.  La società dei consumi ci offre infinite possibilità, ed ognuno è abbastanza maturo per scegliere ciò che si merita. Basta non indebitarsi, o mettere a rischio beni essenziali (cibo, studi, casa, salute) per beni superficiali.

Il giorno del Superbowl sono arrivato allo stadio di Miami (Hard rock Stadium) a mezzogiorno, cioè con sei ore d’anticipo. Le porte aprivano alle 14, quindi per due ore ho girato attorno per vedere un po’ i volti, i corpi, gli occhi, le mani, i vestiti. Per vedere insomma “gli americani”, guardarli da vicino, nella loro assoluta normalità.  C’erano predicatori che ti invitavano a seguire l’insegnamento di Gesù, persone che cercavano un biglietto, altre che lo vendevano. C’era chi faceva il gioco delle tre carte, ma senza carte, con una pallina e tre piccoli bicchieri, e una piccola nuvola di persone attorno. Mi son seduto fuori allo stadio, con altri, ad aspettare che aprissero le porte, ed intanto ammiravo l’Hard Rock Stadium con su scritto Superbowl, seguito dal numero LIV, il numero romano che indica la 54ima edizione.

Una cosa che mi ha sorpreso è scoprire che la storia di questo evento sportivo è recente. Il primo c’è stato nel 1967, quando mia mamma aveva diciassette anni. Compariamo: la prima Coppa del mondo (Andiamo a Berlino, Beppe!) si è tenuta nel 1930,  la Coppa dei campioni nel 1956. Negli Stati Uniti la prima finale di Baseball risale al 1903. Tutto questo ci suggerisce una grande lezione: il Superbowl è diventato grande in poco tempo. La sua fortuna è la finale secca, in una partita sola, tale da calamitare l’attenzione di tutto il paese. Nel Basket, Baseball e nell’ Hockey sul ghiaccio la finale è su sette partite, l’emozione si diluisce.

Entrare è stato facile, la fila scorreva veloce, e c’erano i metal detector come in aeroporto. Non si potevano portare borse e zaini ma buste trasparenti. Ne ho comprato una di plastica, e sono passata con quella. L’unica pecca è che era vietato il Tailgate per ragioni di sicurezza. Vi spiego cosa è il Tailgate party (festa del bagagliaio). Durante le partite di football, nei parcheggi la gente organizza grigliate, mangia e beve, tutt’assieme. Si apre il bagagliaio della macchina, e si organizza. Così passa il tempo prima della partita. E’ una cosa americanissima che vale la pena vedere, ma in questo caso non c’era.

Ero tra i primi ad entrare, e mi sono goduto lo stadio in quel vuoto poetico che è la festa prima che inizi. C’erano diversi stand fuori dove mangiare qualsiasi cosa, dal pulled pork agli hot dog, ma anche all’interno del struttura l’offerta culinaria era infinita: dal sushi agli hamburger, compresa pizza e pop corn. E poi parecchi negozietti tutti dedicati al football americano, con dei gadget ufficiali del Superbowl. Io ho mangiato hamburger e patatine, un classico.

Ma protagonista dell’evento è sicuramente la birra, fiumi di birra che scorrono, nonostante il prezzo di quasi venti dollari per una lattina da mezzo litro. Tre cose mi hanno colpito, e non m’aspettavo. La prima è il Wifi libero nello stadio, velocissimo. Nonostante la mole di persone, potevo caricare le storie su Instagram ad una velocità pazzesca. La seconda cosa sono le due piccole feste ufficiali all’interno, una per la squadra di Kansas City (Chiefs) e un’altra per i San Francisco (49ers). Più che la tensione per la partita, si respirava un clima festoso. La gente ballava, musica da disco, e qualche coro d’incoraggiamento. Io se partecipassi ad una finale di Champions League tra Napoli e Juventus, starei con il cuore in gola tutto il tempo.  Anche i rapporti tra i tifosi delle squadre avversarie mi son sembrati cordiali e scherzosi, e che non ci sarebbero stati problemi l’intuivo dalla presenza limitata di poliziotti. Se consideriamo gli standard europei del calcio, praticamente si può dire che la sicurezza era assente, c’erano solo gli steward vestiti di rosso, ma non tipi muscolosi e aggressivi, uomini e donne di tutte le età e strutture fisiche. La terza è che nonostante il prezzo del biglietto (per gli abbonati delle due squadre c’era una lotteria per avere il biglietto ad un prezzo ridotto, ma comunque alto) non mi sembrava di essere circondato solo da ricchi americani, ma da una classe media normalissima che probabilmente  aveva caricato la spesa sulle carte di credito. Quindi ero all’interno di un’America pura e realista.

Io ero nella parte bassa dello stadio (quella alta costa di meno perché ci vuole il binocolo), vicino alla linea della meta (che si chiama endzone). Per farvi capire, se lo stadio è un rettangolo, io mi trovavo quasi all’estremità del lato più lungo. I posti più costosi sono quelli nel settore basso, al centro dello stadio (sulla linea dei 50 Yards), dove il biglietto può arrivare facilmente anche a 20mila dollari. Poi ci sono anche le suite, in cui vanno i gruppi d’amici, e che sono molto costose e comode. Dalla mia posizione potevo assistere benissimo alle azioni vicino alla mia endzone, ma avevo difficoltà a seguire l’azione dall’altro lato. Per fortuna tutte i touchdown sono avvenuti vicino a me, e me li sono goduti.

Sfatiamo un mito, il football americano non è un gioco lento, ma piuttosto veloce, lo segui con piacere. Forse in Tv a causa degli spot pubblicitari s’interrompe “l’emozione”, ma dal vivo scorre che è una bellezza. Ho trovato più noiose certe partite di calcio, dove non si supera la linea di centrocampo. Poi c’è un’altra cosa, è uno sport facile. Una squadra attacca e cerca di portare la palla oltre la linea dell’ endzone. L’altra difende, e cerca di rubare palla.  Anche se non conosci le regole, dopo un po’ capisci come funziona. Lo segui con piacere, a differenza del baseball che è più complicato. Poi c’è la spettacolarità degli scontri, e la grandezza del gesto tecnico individuale. La velocità con cui il Quaterback deve lanciare la palla, il tentativo di correre senza essere preso. Devo dire che alla fine m’è piaciuto, ed era la prima partita a cui assistevo. Ma è inutile negarlo, era il contesto ad esser magico, a darti tanta adrenalina. Caspita da Pastena (Salerno) ero finito a vedere il Superbowl, e questa cosa era bellissima.

Un’altra cosa che ho notato, è l’assenza di cori da stadio come quelli della Premier League o della serie A, come se mancasse una struttura di tifo organizzato vero, gli ultras tanto per capirci. E forse su questo avrei apprezzato qualche coreografia spontanea dei tifosi, che invece non c’è stata.

Se il mondo intero è disinteressato all’esito della partita, c’è una cosa di cui poi tutti parleranno. L’abbiamo detto all’inizio, lo spettacolo dell’intervallo, venti massimo trenta minuti di puro piacere. L’avevo sempre visto in Tv, e mi affascinava. Mi chiedevo come potessero montare e smontare un palco in pochi minuti, perché tutto deve incastrarsi a perfezione all’interno della partita, con la precisione di un orologio svizzero. In Tv  questa cosa del palco che va montato non la vedi, ci sono gli spot, ma io c’ero ed ho visto la macchina perfetta. Decine di persone che portavano vari parti del palco, tutti coordinati perfettamente. Uno show di velocità e potenza che in parte mi ha sorpreso più dell’esibizione stessa. Perché questo va detto. Lo spettacolo di Jennifer Lopez e Shakira è bellissimo, ma è pensato per la TV, è pensato per le dinamiche televisive, quindi dal vivo rende meno, tant’è che alla fine l’ho guardato dal maxi schermo. Immagino che dal settore superiore abbiano visto anche peggio. Ho apprezzato però i fuochi d’artificio, durante lo show, sopra lo stadio, che in TV non si sono visti tanto. L’ultima chicca siamo noi, il pubblico. Quando quattro ore prima ero entrato nello stadio, avevo trovato una bustina trasparente attaccata con lo scotch al sediolino, dentro la quale c’era un braccialetto di gomma e delle istruzioni. Ovviamente questa bustina era attaccata a tutti i sediolini, tutti avevamo  un braccialetto da indossare, che poi si è illuminato di diversi colori durante lo spettacolo, regalandoci effetti visivi unici. Lo stadio rosso, poi bianco, poi blu. Se devo dare un giudizio però dico che lo show dell’intervallo in TV si vede meglio, a meno che non siete posizionati proprio davanti al palco.

La partita è durata all’incirca quattro ore, è stata emozionante perché sembrava dovesse vincere San Francisco, ma poi a sorpresa ha vinto Kansas City che non alzava il trofeo da cinquanta anni. Per farvi capire cosa è successo, mi ha ricordato una finale di Champions League del 1999 tra Manchester United e Bayern Monaco. Fino al 90imo vinceva il Bayern Monaco, poi in tre minuti il Manchester ha ribaltato la partita. Ho assistito a una cosa del genere. I tifosi del Kansas City erano felici, increduli, forse paralizzati. Un ragazzo al mio fianco aveva le mani in testa, e non si muoveva. Altri alzavano i pugni al cielo. Però non so come dirvi, me li sarei aspettati più in estasi, i vittoriosi, e più disperati i perdenti. Mi aspettavo lacrime e follia, invece si contenevano. Se il Napoli avesse vinto una finale così contro la Juventus, io sarei finito per l’esultanza almeno dieci sediolini sotto. Lo stesso ho notato nel campo. Quando finisce una finale di calcio (Coppa campioni o Coppa del mondo), i giocatori che perdono crollano a terra, piangono, si disperano. Qui niente, gli sconfitti di San Francisco erano tranquilli. Sono usciti dal campo con un atteggiamento del tipo: “Va bene, abbiamo perso, andiamoci a fare due birre”. Mentre i giocatori del Kansas City, vittoriosi in campo, saltellavano felicissimi e increduli, come avviene anche nel calcio.

Voglio fare un’ultima annotazione. La coppa è stata data al proprietario della Squadra vincente, non al capitano. E il proprietario Mark Donovan, insieme alla moglie, se l’è presa, ma non l’ha alzata al cielo in maniera epica come Cannavaro ai mondiali 2006. La moglie invece ha dato un bacio al trofeo (dedicato all’allenatore Vince Lombardi). E subito dopo me ne sono tornato a casa, con Uber, che nel caos totale di quel giorno, ho dovuto aspettare per ben due ore.

 

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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