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4 anni vissuti ad Harlem, vi racconto la mia esperienza

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Maggio 17 2016

Di Mariagrazia De Luca

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Questa cosa, devo ammetterlo, mi manda ai pazzi, mi manda in confusione, mi fa perdere di vista chi sono, la mia profonda identità. Mi sento giudicata per la mia faccia. Cosa avrà di tanto anomalo la mia faccia? È una faccia bianca, tendente al bianco diciamo, “white”. Eppure, ne ho viste di facce ancora più bianche, con la pelle quasi trasparente. Scusate lo sfogo, lettori del Il mio viaggio a New York, ma per voi che andrete avanti nella lettura, vi assicuro che potrete capire. Vi metterete nei miei panni, e direte: “Wow, che esperienza incredibile essere un’italiana a New York… un’italiana a Harlem!”

Rientravo a casa qualche sera fa, erano circa le 8.30 e come ogni sera tiepida di primavera i miei vicini di casa, la famiglia Jackson, stava gozzovigliando sul gradino del portone del palazzo. Avevano apparecchiato un vero e proprio banchetto: alette di pollo e patatine fritte servite in una ampia teglia di alluminio. La nonna, una signora dai capelli bianchissimi tagliati corti che mettono in risalto la sua carnagione scura, se ne stava come una statua di Buddha senza dire una parola, mentre i figli, due uomini e una donna sulla quarantina facevano un bel po’ di baccano.

Uno dei due figli, mi sembra si chiami Donald, è sempre gentile quando mi vede. Mi saluta quando l’incontro nell’ascensore, “Wassap, mam!”, e mi tiene la porta del portone con galanteria dandomi la precedenza per entrare. L’altro invece, un omone di 200 kg, con un berretto degli Yankees sempre in testa, non mi rivolge quasi mai la parola. Sembra anzi infastidito quando incrociandolo sul pianerottolo lo saluto, cosicché ho smesso di farlo e mi rivolgo solo a Donald. La sorella, una ragazzona dalle lunghe trecce nere saluta ma non sorride mai. Ogni volta che la incontro in ascensore cala un silenzio carico di tensione, per scendere o salire quattro piani sembra volerci due ore. Una volta ho provato ad attaccare bottone parlandole del più e del meno, “It’s brick cold today!”, ma neppure l’escamotage del tempo metereologico sembra aver salvato la situazione: ma mi ha freddato con uno sguardo. Allora ho deciso di prendere le scale quando è nei paraggi.

Ci sono poi quattro o cinque bambini, dai 5 ai 10 anni, che fanno parte della famiglia Jackson. Non sono tanto rumorosi, ma per farsi aprire la porta dalla nonna danno calci alla porta. “Open the door, open that *** door!” è lo stile di Donald, d’altronde, quando deve dire a sua madre di farlo entrare a casa.

Ecco, la scorsa sera, rincasavo mentre la famiglia Jackson al completo stava sgranocchiando alette di pollo e patatine fritte fuori al portone. Ho fatto un cenno di saluto a Donald, l’unico di tutti i componenti del nucleo familiare che non sia impenetrabile, quando il fratello, porgendo verso me un’aletta di pollo ricoperta di Barbecue sauce, mi ha chiesto. “Wanna some?” Io, presa alla sprovvista, ho risposto. “No, thanks!”. Allora ho abbozzato un sorriso, che mascherava un disagio piuttosto che gratitudine per l’offerta inaspettata. Lui, storcendo le labbra e guardandomi dritto dritto negli occhi, mi dice con un tono improvvisamente serio: “We, black people, eat meat!”. Il mio cervello ci ha voluto qualche secondo per mettere insieme il suono delle parole con il significato e la punta di sarcasmo che trapelava dietro la sua offerta. “I love meat too!”, gli ho risposto d’istinto, ma con un tono di voce non incisivo. Mi sono resa conto subito di non essere stata convincente, infatti non ho convinto neppure me stessa.

Per i miei vicini di casa sono la “white girl”, la bianca, non c’è niente da fare. Italiana o argentina, russa, messicana, o del Sud Africa, poco cambia: sono la “white girl”, la bianca. Black people eat meat. Cosa vuol dire? Io mangio carne, eccome se mangio carne. Cosa sarebbe la mia vita senza il Prosciutto di Parma? Ho proprio una faccia da vegetariana? Non credo proprio. Ho solo una faccia bianca.

Ma non finisce qui. Sarebbe troppo bello se finisse qui. Se fossi solo la “bianca”, la mia personalità sarebbe semplicemente bipolare. Invece no. Sono anche Maria la “latina”, Maria “l’europea”, Maria “la gringa” e ogni tanto anche Maria “l’italiana”. Quante Maria! Non è incredibile? A seconda dell’interlocutore, cambia anche la mia identità. E in tutto questo la lingua parlata dall’interlocutore è un fattore determinante.

Marisa, la parrucchiera domenicana che ha il negozio proprio sotto casa mia, si rivolge a me sempre in spagnolo. “¿Cómo estás, mami?”. Questo mi fa sentire a casa. Mi chiede se voglio il capello “liso” o “rizado”. L’esatto opposto di quanto mi succede ogni volta che entro dentro quel dannato negozio di T-mobile sulla 143rd Street. Ci lavora una commessa con le unghie lunghe e laccate, che ogni volta che le dico “Hola” mi risponde “Hi!” con una smorfia sul viso. Le parlo in spagnolo e mi risponde in inglese. Che si crede, che le sto rubando la lingua? Sembra essere quasi gelosa che io parli il suo stesso idioma. Il fatto che mi risponda in inglese la sento come una forma di esclusione, soprattutto quando poi rivolgendosi all’altro commesso parla in spagnolo, e poi con me di nuovo in inglese. E allora io preferisco non andare da T-Mobile quando c’è lei, piuttosto prendo la metro e vado downtown, a un altro negozio di telefonia.

Per Max invece, il mio professore di inglese originario del Connecticut, io sono sempre stata Maria l’italiana, ma in una accezione più ampia. Maria l’italiana-latina. Lui è americano, di lontana discendenza irlandese e tedesca. Ogni tanto spiccica qualche parola in spagnolo, perché a quanto sembra per lui italiano e spagnolo sono la stessa identica cosa. ¿Cómo estás, Maria?”. Mi vede come un personaggio esotico, e mi chiede spesso se so cucinare.

In molte occasioni mi è capitato di essere considerata Maria “l’europea”, come se l’attributo “europeo” fosse una categoria generale dove inglesi, francesi, tedeschi, italiani e anche russi, si mescolano e sono, alla fine, la stessa identica cosa

Tuttavia in questa confusione di identità a cui mi sento assoggettata come immigrata italiana nel cuore di Harlem, mi capita di provare anche uno spiraglio di orgoglio nazionalistico quando qualcuno, riconoscendo il mio accento “esotico” mi chiede, “Where are you from?”. Se durante un mio soggiorno a Londra, ricordo che un artista di strada mi disse: “Are you Italian? Ah, Italia, Italia! Pizza, mafia e mandolino!”, a New York invece essere italiano è “cool”, è fico. Molti americani sgranano gli occhi di meraviglia quando rispondo: “I am from Italy” e molte volte sciorinano grandi nomi che hanno fatto il nostro paese grande nel mondo. “Michelangelo, Toscany, Chianti, Roman history, Gelato! Trevi’s fountain, Bernini, Borromini, Sicily, food, food, food, amazing food!”

La confusione, alla fine, resta comunque. Yes. I am Italian. Come poterlo negare quando è scritto nel mio passaporto? Eppure dopo quattro anni qui a New York, sono anche newyorkese. Sì. Maria “l’Italo-newyorkese”, anzi, la “roman-newyorkese”. Perché rinchiudere la nostra identità in una gabbia? Alla fine noi siamo quello che decidiamo di essere. E io sento questa città essere parte di me. Essere, in qualche modo, a casa.

E poi c’è il pianeta terra, la grande casa comune. Ritengo che sia triste che ci siano confini, barriere, leggi che non permettono alle persone di viaggiare liberamente e scegliersi la terra dove sentirsi a “casa”. Non tutti riescono ad ottenere facilmente il visto per venire a visitare New York. In pochi, pochissimi, hanno il privilegio di poterla scegliere come “casa”.

 

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

Scopri i segreti di New York con Piero Armenti: viaggi, storie e avventure nella Grande Mela. Seguimi su Facebook, Instagram, e YouTube per non perderti nulla!

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