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Umberto Mucci ci racconta gli “italoamericani”

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Agosto 17 2016

Mariagrazia De Luca

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Umberto Mucci, giornalista e rappresentante dell’Italian American Museum in Italia, ha un grande sogno, che è anche una “missione sociale e personale”: quello di creare un ponte tra gli italiani e gli italoamericani. Umberto vuole avvicinare questi due mondi che a suo parere sono storicamente e “geneticamente” vicini, in quanto “gli italoamericani hanno il nostro DNA, sono nostri fratelli”. Nel libro recentemente pubblicato, We the Italians. Two flags, One heart. One hundred interviews about Italy and the US, Umberto raccoglie cento interviste fatte a italiani, italoamericani e americani “di successo”, scrittori, professori, artisti e professionisti di vario tipo, attraverso le quali mette in luce aspetti nuovi e poco battuti della relazione feconda tra italoamericani e italiani.

“La creatività italiana sposata con qualità italoamericane, come l’entusiasmo e l’ingenuità, portano a risultati sorprendenti e ad un sicuro successo”. Di questo ne è convinto Umberto, fondatore e CEO del portale web www.wetheitalians.com, che ha lo scopo di essere portavoce e punto di riferimento per questi “fratelli italoamericani di cui noi ci siamo dimenticati, ma che ci adorano e continuano a provare un profondo e sincero amore per la nostra cultura”. Su www.wetheitalians.com, oltre ad esservi pubblicate molte interviste, alcune inedite e non presenti nel libro, vi sono informazioni su ogni cosa riguardante l’Italia negli Stati Uniti.

E questa settimana Il mio viaggio a New York ha l’onore di conversare con un esperto come Umberto, sul suo libro, gli italoamericani, New York e progetti futuri per “riunire” italiani e italoamericani.

Nell’introduzione del tuo libro ti paragoni a Cristoforo Colombo, che va alla scoperta di nuove terre. Dici di non averlo pianificato, ma piuttosto il tuo libro è frutto di tanto lavoro che hai iniziato molto tempo prima per il tuo portale. Raccontaci questa tua bella “avventura di scrittura”.

Non voglio paragonarmi a Colombo, era una battuta (ride). Ma non nego che la scelta di questo personaggio storico italiano non sia casuale. Ci sono stati molti attacchi da parte di alcuni negli Stati Uniti contro il Columbus Day e Colombo, che io ho vissuto come un attacco alla comunità italoamericana ed anche all’Italia.

Il Columbus Day è una festa molto discussa, ma cosa rappresenta in realtà?

Columbus Day celebra ovviamente Colombo, ma più che altro è una festa che celebra gli italiani in America, l’italianità. Non è giusto, a mio parere, che alcuni stati americani, abbiano deciso di abolirla. Mi è sembrato un attacco agli italoamericani, mascherato da un attacco a Colombo. Colombo è un uomo del 1500 e non possiamo giudicarlo con gli occhi del 2016. Se ragioniamo così, allora dovremmo anche considerare tutti i “Founding Fathers”, i padri fondatori dell’America, degli schiavisti… erano altri tempi.

Da dove nasce il tuo amore per gli Stati Uniti?

Amo tantissimo gli Stati Uniti in quanto mio padre fu salvato dalla Quinta Armata durante la Seconda Guerra Mondiale. Nella giornata del Memorial Day, vado sempre al cimitero di Anzio, vicino Roma, a rendere omaggio ai 7.861 soldati americani sepolti lì, morti sul campo italiano per salvare il nostro paese.

Chi sono davvero gli italoamericani?  Tutti quelli che ho incontrato idealizzano l’Italia, questo paese mitico delle origini, e hanno un rapporto sentimentale molto forte con essa. Ci tengono sempre a dirlo: “io sono di X generazione italiano”.

Gli italoamericani sono 25 milioni di persone innamorate di noi, innamorate del nostro paese. Sono persone solitamente di successo, pronte a spendere soldi per l’Italia, per visitarla, per impararne la lingua. Non è vero, come criticano in molti, che gli italoamericani non sanno niente dell’Italia di oggi, ma sono invece rimasti con l’idea di un’Italia degli anni ’60 o ’70, un paese di cinquant’anni fa.  Sono, al contrario, persone che ci adorano e che si interessano giornalmente di cosa succede in Italia, ma che non sono rappresentate. Noi vogliamo rappresentarle e il nostro portale, www.wetheitalians.com, ha proprio questa missione.

Cosa possono apportare gli italoamericani al nostro paese e al nostro essere italiani?

Dal punto di vista psicologico, possono apportare l’entusiamo e l’ingenuità americana, entusiamo che nasce dal loro amore sincero per l’Italia. Inoltre, gli americani in generale, hanno un concetto diverso del “fallimento”: significa, per loro, imparare dagli errori. Noi prendiamo troppo sul serio il fallimento. Secondo me, il loro entusiasmo e ingenuità è meglio del cinismo italiano e si sposa bene con la nostra creatività, la nostra capacità di risolvere problemi. Gli italoamericani sono la dimostrazione che le abilità italiane in America funzionano.

Dal punto di vista materiale, gli italoamericani sono persone che spendono soldi per celebrare l’Italia, ci vengono in vacanza, e fanno guadagnare anche soldi alle aziende italiane, oltre ad essere spesso generosi nell’ambito della beneficenza. A seguito del terremoto dell’Aquila, attraverso fondi raccolti attraverso l’Italian American Museum, siamo riusciti a restaurante un’antica Madonna del 1400, icona importantissima per un piccolo paesino abruzzese. L’abbiamo portata anche a New York per due mesi.

Abbiamo un legame storico forte con gli italoamericani?

Fortissimo. Vi porto solo un paio di esempi. Innanzitutto, sono stati gli italoamericani guidati da Fiorello La Guardia a scrivere ai deputati al fine di far includere l’Italia nel piano Marshall, dal quale il nostro paese era stato inizialmente escluso, in quanto uscito perdente dalla guerra. Inoltre, ricordiamoci che al momento di votare per il Patto Atlantico o per il Patto di Varsavia, quindi schierarci con l’asse Stati Uniti o dalla parte dell’URSS, gli italoamericani hanno scritto fiumi di lettere ai loro parenti a casa chiedendogli di votare per stare a fianco degli Stati Uniti, e quindi dalla parte della democrazia e libertà. Due momenti storici importanti per gli italiani!

Umberto, parlando con te, mi sto rendendo conto di come la connessione tra noi e gli italoamericani sia forte. Ma non posso negare che spesso noi italiani consideriamo genericamente gli italoamericani come “americani”.

Esatto. La connessione è forte, ma soprattutto da parte loro nei nostri confronti. Noi italiani siamo concentrati su noi stessi e ci dimentichiamo che loro sono nostri fratelli. Dovremmo “calcolarli” di più. Forse tutto questo discorso vale anche per gli italoargentini, gli italobrasiliani, etc. Comunque anche se non c’è scritto nel passaporto, gli italoamericani sono italiani, e noi non abbiamo diritto di negarglielo.

La nazionalità è una cosa imposta dai passaporti e dalle leggi, ma in realtà quello che uno si sente di essere è la cosa più importante.

Piero Bassetti, Presidente di Globus et Locus, in un’intervista che gli feci, propone un paradigma interessante in cui vi è un superamento degli stati nazionali, considerati come un semplice confine territoriale e politico. Bassetti parla di una comunità di “italici”, che non sono semplicemente gli italiani, ma che comprende anche le persone che vi si uniscono in matrimonio, o semplicemente che apprezzano qualcosa della nostra cultura.

 

Nel tuo libro, hai intervistato una varietà incredibile di persone, da cantanti come Renzo Arbore all’avvocatessa Annalisa Liuzzo. Come le hai selezionate? Cosa hanno in comune?

Il metodo che ho utilizzato non è forse il migliore al fine del marketing. Mi sono lasciato infatti alle spalle personaggi famosi, come Martin Scorsese. Ammesso e concesso che Scorsese si fosse fatto intervistare, non credo che mi avrebbe detto niente di nuovo. È già stato intervistato tante volte e quello che doveva dire l’ha già detto. Sono invece andato a ricercare argomenti che mi interessassero e che potessero dar luce ad aspetti nuovi e poco battuti della relazione tra Italia e America. E in questa avventura ho scoperto cose incredibili, intervistando specialisti di un soggetto piuttosto che di un altro…

Raccontami di una bella scoperta che hai fatto durante le tue interviste.

Intervistando Pierpaolo Polzonetti, autore del libro “Italian Opera in the Age of the American Revolution”, ho scoperto che il nostro gesticolare, per il quale spesso ci imitano e ci prendono in giro, deriva invece da una cosa nobile. Infatti, nel XVIII secolo l’unica forma internazionale di teatro era il teatro dell’Opera. E il teatro napoletano andava in giro cantando, ma visto che il napoletano lo capivano in pochi, si gesticolava molto per spiegare la trama. Sai, quando racconto questo aneddoto durante le presentazioni del mio libro che ho fatto in America, gli italoamericani hanno gli occhi lucidi…

Dove hai fatto le presentazioni del tuo libro fin’ora?

In giro per gli Stati Uniti, partendo da Staten Island, passando per  Las Vegas, Kansan City, New Orleans, fino a Manhattan, Boston e molto di più. Il prossimo anno vorrei fare la California.

Le comunità italoamericane sono tutte simili o hanno forti differenze l’una dall’altra?

Sono tutte diverse, tra Long Island e Manhattan, per esempio, vi è un abisso. Tutti, però, sono persone che celebrano l’italianità.

Dove possiamo entrare in contatto con i veri italoamericani oggi a New York? Immagino non certo nella Little Italy nei pressi di Chinatown…

Arthur Avenue nel Bronx è il posto migliore dove incontrare gli italoamericani. A Little Italy, invece, ci trovi l’Italian Museum, dove si può imparare molto sull’immigrazione italiana. A Staten Island c’è un’italianità diffusa, così come a Manhattan stessa. A New York c’è Italia ovunque. Sapevi che le sculture dei leoni fuori la Public Library sono state fatte da italiani?

In un certo senso si può dire che Manhattan stessa è stata costruita da italiani, o per lo meno che gli hanno dato un buon contributo?

Assolutamente. Gli italiani hanno costruito ponti, grattacieli, strade di New York. Gli italiani arrivavano in massa nel secolo passato con l’idea di trovare le strade d’oro, ma in realtà si rendevano conto che l’oro non c’era, le strade non erano pavimentate, e anzi, erano loro che avrebbero dovuto costruirle.

Progetti nel futuro?

Ho un sogno nel cassetto. Vorrei aprire un ristorante italoamericano a Roma, dove si possano mangiare spaghetti con meatballs, fettuccine Alfredo, e dove i camerieri ti mettono acqua con ghiaccio nel bicchiere di continuo. Sulle pareti,  avrei foto di Frank Sinatra e Joe di Maggio. Sarebbe di certo una provocazione! Ma, mi chiedo, se abbiamo la possibilità di mangiare etiope, somalo, cinese, messicano, etc. perché non avere la possibilità di godere della cucina italoamericana? Sarebbe un omaggio agli italoamericani, e il riconoscere una cucina differente e unica, nata storicamente dalla volontà di riproporre le tradizioni italiane da parte dei primi immigrati italiani, con i prodotti che si trovavano negli Stati Uniti.

Parlando di prodotti italiani, ho notato che spesso il termine “italiano” viene attribuito anche a prodotti che di fatto non lo sono. Ad esempio, la mozzarella. Ci ho rinunciato ormai, ogni volta che vado al supermercato e compro una mozzarella “italiana” so già che, nella maggior parte dei casi, mi troverò a mangiare un formaggio molto differente a quello a cui sono abituata in Italia.

Si dovrebbero educare i venditori (e i consumatori) che esiste una mozzarella italiana e una italoamericana. Fu Lidia Bastianich, il numero uno tra gli chef di cucina italiana negli Stati Uniti, la prima ad avere questa straordinaria sensibilità di riconoscere che era necessario distinguere prodotti “italiani” da quelli “italoamericani”. Negli anni ’70, i ristoranti che facevano Mac’n’Cheese si definivano “italiani”. Se invece si iniziasse a dire che il “Chicken parmigiana” è italoamericana, piuttosto che italiana, sarebbe più onesto e si acquisterebbero più clienti. Tuttavia di  questa “incorrettezza” ne giovano in qualche modo i prodotti italiani. Il parmesan cheese, ad esempio, allarga l’interesse verso il prodotto italiano, e incuriosisce il target, attratto dal prodotto falso, a provare il prodotto vero. Forse i produttori del Parmigiano Reggiano non sono d’accordo… ma l’imitazione è una forma di pubblicità.

Umberto, a questo punto mi viene da chiederti: ti senti italiano, americano o italoamericano?

Non posso sentirmi italoamericano, perché non ho vissuto la lontananza, la nostalgia della distanza con l’Italia. Se mi sento italiano e americano? Sì, assolutamente!

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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