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Dentro Little Italy, quartiere divorato da Chinatown

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Giugno 24 2016

 Testo e foto di Luca Marfé

Facebook: Luca Marfé Photography – Twitter: @marfeluca – Instagram: @lucamarfe

Il vero punto di partenza è: cos’è rimasto di Little Italy? E, soprattutto: cos’è rimasto degli italiani, quelli veri? Lo storico quartiere di New York, infatti, è stato “divorato” nel tempo dall’esplosione di SoHo da una parte e dal denaro contante dei nuovi ricchi di Chinatown dall’altra.

Questi ultimi, in particolare, hanno acquistato numerosi locali e svariate proprietà, allargando a dismisura i confini del loro territorio a scapito di quella “Piccola Italia” che, viceversa, ha perso un bel po’ di terreno. Vi sembra il resoconto di una partita a Risiko? Ebbene, da queste parti un po’ lo è. Basta fermarsi a chiacchierare con chiunque dei nostri connazionali per percepire più di un pizzico di attrito nei confronti delle comunità circostanti da cui si sono sentiti in qualche modo “invasi”. Ma torniamo al punto di partenza: cos’è rimasto, dunque? Non moltissimo. Poco, a dirla tutta. Eppure quel poco merita davvero di essere vissuto. L’area è un quadrato “storto” tra Broome, Lafayette, Bowery e Canal Street. Ed è proprio a Canal Street che vi conviene scendere se scegliete di arrivare in metro (linee 4, 6, J e Z). Iniziate a vagare e godetevi le insegne scritte in italiano, la “street art” sparpagliata un po’ ovunque (sotto forma di graffiti e non solo) ed i giovani che lavorano nei ristoranti che, tra una battuta e l’altra, rigorosamente in dialetto, cercheranno di convincervi a fare tappa da loro. In fondo, Little Italy è anche e soprattutto questo. Quel calore tutto italiano che, per un attimo e nonostante un oceano di mezzo, vi regalerà l’illusione di essere a casa. Tra i miei preferiti, Gennaro. Perché? Be’, oltre a vantare un menù variegato a relativamente accessibile, Gennaro è semplicemente un mito. Lo troverete la fuori, con le braccia piene di tatuaggi e l’inconfondibile coppola in testa. E sì, lui è uno di quelli che farà davvero di tutto per convincervi a prendere un tavolo nel suo ristorante. 😉

Una delle tappe storico-culturali imperdibili, a maggior ragione per noi italiani, è l’Italian American Museum. Situato al 155 di Mulberry Street, che è l’arteria principale dell’intero quartiere, non è un vero e proprio museo, ma una sorta di bottega infarcita di cimeli, in cui è possibile immergersi in quella che è stata la vita dei nostri avi da queste parti. C’è un biglietto da pagare (7$), ma se siete amanti del passato, sono davvero ben spesi. È bello pensare, inoltre, che questo “cuore” dell’italianità possa continuare ad esistere, naturalmente grazie anche a questo tipo di donazioni.

 Due “perle” per chiudere, entrambe un po’ fuori dal centro dell’itinerario turistico più gettonato. La prima è deliziosa, un vero gioiello: si tratta della Elizabeth Street Gallery (209 Elizabeth St.), una sorta di galleria a cielo aperto, un giardino incantato, in cui le persone si ritrovano per sfogliare un libro, condividere la passione per lo yoga o coltivare piccoli pezzi di terreno a disposizione dei sostenitori del progetto. Non ha molto a che vedere con il patrimonio culturale italiano, ma è ad un passo e non potete perdervela. Emozionante.

La seconda “dritta” è quella più importante, soprattutto se vi considerate dei buongustai. Si tratta del ristorante Emilio’s Ballato, sempre raggiungibile a piedi in pochi minuti, che trovate al civico 55 E di Houston Street. Emilio è italiano, italianissimo e fiero. È qui da tutta una vita ed è una vera e propria leggenda del quartiere. E non solo tra gli italiani. È amico intimo, infatti, di mezza Hollywood («Leonardo è nu buonu uaglion’!») ed in questo locale è passato il mondo intero. Date un’occhiata a queste foto, una piccolissima parte di quelle che espone alle pareti, e capirete. Sul cibo, invece, qualsiasi parola sarebbe superflua. Io personalmente ho puntato sulla pasta e non vedo l’ora di tornarci. Ah, un’ultima cosa: se dovesse invitarvi a bere un caffè, non vi azzardate a dire di no. Gli italiani “vecchia scuola”, si sa, non la prendono benissimo e lui ci tiene a sottolineare che il suo è «il migliore di tutta l’America».

 

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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