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Romanzo su New York, la vita, l’amore, l’inizio del viaggio (3)

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Febbraio 17 2017

 

IN EQUILIBRIO

SOPRA LA FINE

DEL MONDO

di Piero Armenti

    Primi due capitoli qui

    Terzo e quarto capitolo qui

                                        Sintesi primi quattro capitoli

Il protagonista incontra sul ponte di Brooklyn una ragazza, durante una tempesta di neve. Fa freddo, sono entrambi molto coperti. Lei gli chiede di prestargli i guanti, lui lo fa. Tempo dopo vede i suoi guanti al poggiati su un tavolo del ristorante in cui lavora. Rimane fisso ad osservare il bagno, nell’attesa  che la ragazza a cui aveva prestato i guanti esca. La ragazza esce, lo tratta male, e gli dice che i guanti glieli ha prestati un’altra amica. Il protagonista andrà a cercare quest’altra amica in una discoteca, ma lei nega. Il mistero si infittisce.

5

“Che fai qui Camila?” La sorella di Diego è arrivata dal Messico. Ha  20 anni, qualcuno meno di Diego, ma sembra molto timida e impaurita. Strano, ho commentato a Diego. I messicani sono gente allegra. Mi ha fulminato con lo sguardo: “Colpa della frontiera”.

Di lei dopo quel giorno non ho  saputo più nulla, fino a quando non l’ho vista al Rockefeller Center, con un cartellone in mano. Gridava e cercava di vendere i tour. “Hola amigo, sto vendendo i tour, ti interessa?”. “No, non mi interessa. Ma non sapevo che lavorassi qua. Diego non mi aveva detto niente”. “Sì, è una compagnia peruviana, fanno tour e si occupano di turismo”. “E guadagni bene?”. “Sì molto, se vendo 10 tour sono 300 dollari di commissione”. Non male, proprio non male per una ragazza che in Messico quella cifra non l’avrebbe vista neanche in un mese di lavoro. Ma è il miracolo di New York, città mercantile. Nei lavori da ufficio si guadagna poco. Ma appena conoscete la strada, appena entrate in quel gran segmento di lavoro che i newyorkesi non farebbero mai, allora potete guadagnare cifre alte. Certo a patto di consumarvi, perché la fatica consuma. Ma almeno si guadagna. Non c’è altra ragione che possa spingere i disperati a venire qui, che possa trasformare i professori universitari di paesi poveri in operai, gli scienziati in tassisti, gli ingegneri in pizzaioli. Non c’è una vera ragione per vivere a New York, se non quell’incredibile canto delle sirene che è il denaro. Falò delle vanità. La bellezza dei musei, la bontà dei suoi ristoranti, la pace di una passeggiata nel Central Park. Nulla di tutto questo importa. Qui l’unica ragione per venire, e per restare, è che puoi fare soldi, facendo qualsiasi cosa. E poi magari mandarli a casa, aiutare la famiglia. Per questo molti dal Messico e dall’America Centrale rischiano tutto per venire fin qua, salgono a volte su treni mercantili conosciuti come treni della morte o la bestia. E non è poco, rischiare la vita. Camila ha ritrovato il sorriso. Credo siano passate poche settimane da quando è arrivata a New York, e già è stata catturata da quella frenesia del fare tipica della metropoli. È per strada, a gridare, ad accalappiare clienti, a inventare informazioni su New York, a parlare di cose di cui non ha idea. “Ma la polizia? Non ti dice niente?”. Niente, anzi scherzano con lei. Andiamo, mi dico tra me e me, chi vuoi che veramente prenda sul serio un clandestino a New York. Ce ne sono tantissimi.  Il giorno successivo mentre sono al Don Coqui a ballare con Camila e Diego, arriva un loro amico, un certo Daniel. A un certo punto vedo che escono fuori tutti e tre. Si appoggiano ad un’automobile. Daniel caccia fuori una busta, e loro gli danno in cambio dei soldi. Poi parlano un momento, e rientrano dentro. Inizio a temere che dentro ci sia della droga, che possa io stesso cadere in un giro di equivoci, e non è proprio il caso, visto che già sto nei casini di mio con il visto. Loro continuano a parlottare, fratello e sorella attaccati al bancone del bar, mentre io ballo con Madelayne, una colombiana che mi trascina in una Salsa molto hot. Ma io sono troppo distratto per concentrarmi. Sono ossessionato solo da una cosa. Sapere cosa c’è in quella busta. Madelayne mi racconta la sua storia e intanto balla e grida: “Aquel maldito!”. Io le ripeto cosa? Lei continua: “Non me lo sarei mai aspettato”. Vuoi che ci sediamo, le dico!  Accetta l’invito, e ci sediamo su alcuni divani comodissimi. Lei inizia a raccontare. “Arriva a casa un giorno, si siede sul divano. E mi dice che mi deve dire una cosa. Io lo guardo e gli dico: parla. E lui inizia a parlare” “E cosa ti dice?”. “Era così un bravo ragazzo, lì in Colombia il migliore della scuola. Poi insieme ai genitori  sono scappati a Bogotà, sai quelle cose della guerriglia, e infine sono venuti a New York, e sai cosa mi dice?”. “ No cosa ti dice?” “Che poi tutte mi invidiavano, pure Gloria la mia migliore amica. Mi dicevano che sono fortunata, ho un ragazzo che studia Legge negli Stati Uniti, che farà l’avvocato, che sarà una persona rispettata a New York, nella comunità ispana. Che vivremo in un appartamento bonito”.  “Si ma cosa ti dice?”. “Cioè allora capisci che quando ho scoperto di essere incinta, anche se non eravamo sposati, ero felicissima. Mi sono detta ok, siamo stati sempre poveri, abbiamo vissuto una vita di stenti, ed è vero che io più della cassiera al supermercato non posso fare. Ma il padre dei miei figli sarà avvocato, sai cosa significa per una donna venuta dal nulla come me?”. “Sì, ma cosa ti dice, cosa ti dice dopo essersi seduto sul divano?”. “E credimi, non me lo sarei mai aspettato. Non beveva, non fumava, non faceva battute volgari. Sempre molto ordinato, equilibrato. Sempre così a modo. Tutti ottimi voti. L’uomo ideale”. “Sì, ho capito ma cosa ti dice diamine!”. “Che poi dovevamo anche sposarci. Lo sai sposarci. Io ero convinta che dopo qualche giorno mi avrebbe dato quel fucking anello che avevo visto nella sua giacca”. “Sì, ma si può sapere cosa è successo?”. “Sai cos’è? Io lo avrei anche perdonato, ma non c’è stato modo. Mi dice che non solo aveva messo incinta me, ma anche Gloria. La mia migliore amica. Allo stesso tempo”. Silenzio, a quel punto rimango neutralizzato, non so che dirle. Stavo anche tentando di accarezzarle il braccio. Ma mi blocco. Non ricordo se ci sia stato un seguito di quella conversazione. Ricordo solo che subito dopo ci baciamo. Un bacio molto triste a dire il vero. Lei mi dice che vuole rivedermi. Io rispondo che sì, forse. Quel giorno è finito così, con queste ultime parole: “Alla fine ha chiesto a Gloria di sposarlo. E Gloria la mia migliore amica da quel momento ha smesso di parlarmi. Ed eccomi qui. Ho 28 anni, un figlio di 6, e sono una donna sola, come tante latine qui a New York”. So già che non la rivedrò più.   Fuori dal locale, mezzo ubriaco, tiro Diego per un braccio, e grido: “Cosa c’è in quella busta?”. Lui ride, e mi mostra il contenuto. C’erano la green card e il social security falsi, per permettere alla sorella di lavorare. Decidiamo di andare tutti a celebrare l’evento con un tacos!

 

6

Confesso di averlo sperato nei giorni successivi. Che tornasse la ragazza a cui avevo prestato il guanto bianco. Mi ero convinto che prima o poi sarebbe tornata, anche se mi aveva mentito e aveva finto che il guanto fosse di un’amica. In fondo ho pensato che per una bella ragazza di New York io dovessi essere peggio dell’ultimo clandestino. Il lavoro di bus boy non era tra i più duri, ma bisogna essere svegli, veloci, rapidi. Sparecchiare e apparecchiare i tavoli, versare l’acqua, interpretare quello che pensa il cameriere e il cliente. Essere tra due fuochi. Qui a New York il ristorante può riempirsi ad ogni ora, e gli americani vengono a cena in genere tra le cinque e le sei e mezza. Per diventare cameriere avrei dovuto imparare l’inglese, conoscerlo un po’ meglio. Matteo mi trattava bene, era il proprietario del ristorante, ma penso che lo abbia ereditato dal padre. Non è la sua passione cucinare, lui ama il body building e gli piace fare la bella vita, essere accompagnato da donne. Non beve, non fuma, non usa droghe e dal primo giorno che l’ho visto mi ha detto qual era la strada da intraprendere per avere successo: bisogna essere oltre ogni vizio. “Sarà dura, ma se resisti, se ce la fai, l’America ti dà grandi soddisfazioni”.  Ti dà grandi soddisfazione? Questo speravo. Una sera, prima si terminare col turno, Matteo si dà uno schiaffo sulla fronte: “Caspita, bro, mi sono dimenticato di dirtelo! La ragazza dell’altra volta è tornata”. Mi si gela il sangue nelle vene. “Quale ragazza?”. “Dai quella, hai capito quale”. Non posso crederci, voglio ulteriore conferma. “Quella che stava seduta lì, quella bella?” faccio cenno con la mano. “Certo certo, quella!” risponde Matteo. “E ha chiesto di me?”. “No, non ha chiesto di te, però ho la sensazione che fosse venuta per te”. Dai mi stai prendendo in giro? “No, davvero. Si guardava intorno, mi ha occupato anche il tavolo per più tempo del previsto!”. “Ma mica ti ricordi cosa ha ordinato? “Un’insalata Caesar”. Quel giorno decisi di fare qualcosa che non si potrebbe fare, andai a guardare i nomi di tutti coloro che avevano pagato con una carta di credito. Se aveva pagato con la carta di credito, e quasi tutto lo fanno, potevo conoscere finalmente il nome. Per mia sfortuna quel giorno c’erano state addirittura otto persone che avevano mangiato solo insalata Caesar, e di queste 5 avevano pagato con carta, e di queste solo due avevano un nome femminile. Per qualche strana ragione mi convinsi che lei doveva essere russa, e il suo nome era Viktoriya Semyonov.  Quel giorno stesso a casa iniziai a cercare su Facebook. Dovevo trovare questo nome. Mi resi conto subito che era uno dei cognomi più diffusi al mondo. Ma tra un caffè e l’altro la ricerca fallì. Decido di scendere, e andare a sentire un po’ di Jazz al Fat Cat, dove l’ingresso costa 3 dollari e ti puoi anche rilassare un po’. Probabilmente il profilo facebook non era accessibile, o usava un nome falso, o forse non lo aveva nemmeno. Però la cosa più probabile è che quella non fosse lei. Magari aveva pagato in contanto. O forse è tutto un grande equivoco.  Forse mi ero sbagliato, la ragazza del ponte e quella seduta al tavolo non erano la stessa persona. E ancora non capivo quale delle due mi interessasse veramente. Mentre ascolto un po’ di Jazz, un ragazzo mi chiede di giocare a ping pong con lui, e mi sembra un’ottima idea. Si chiama Joy Turner, e vuole fare il pittore, è afroamericano. “Da dove vengo io, in Alabama, essere nero è ancora un bel problema. Poi capirai, se sei come me, nero e anche gay, non hai molte scelte. Meglio andar via. I miei genitori mi hanno guardato negli occhi. A loro non ho mai detto che sono gay, ma lo sanno, l’hanno capito. Ho guardato loro negli occhi ed ho detto io vado via, per sempre.  E loro mi hanno semplicemente detto di sì. Ho preso lo zaino, e sono qui. Per loro il fatto che io stia qui a New York, studi letteratura inglese alla Cuny, e faccia l’artista è motivo di grande soddisfazione. Sono il loro piccolo Obama. Conosci Basquiat, l’artista più quotato al mondo. Era nero e di Brooklyn. Manhattan è il posto in cui stare se sei parte di una minoranza. Non ti senti discriminato, caspita ma hai visto più in là, c’è lo Stonewall Inn, qui si sono ribellati contro la polizia. Alla fine degli ’60 si ribellarono, i gay, le cosiddette femminucce, fecero la storia di questa città.  Allora sembrava impensabile, e da lì nacque tutto. A New York mi sento a casa, è la mia casa. Sono nero, ma non mi pesa, sono gay, ma non mi pesa. Studio letteratura, faccio la mia arte, per fare un po’ di soldi lavoro nel bar del mio quartiere. Sono felice”.  L’energia di Turner mi contagia, è l’energia che hanno tutti i newyorkesi, a ogni età, di ogni condizione sociale.  Il suo racconto mi intristisce, poso la racchetta sul tavolo, e parlo: “Ti invidio sai, io sono qui semiclandestino, anzi clandestino totale. Sono rimasto oltre i tre mesi dell’Esta. Ho conosciuto una donna che non riesco neanche a ritrovare. Non lo so, ma del mio futuro non so nulla”. Bullshit. Inizia a gridare e a sbattere sul tavolo la racchetta da Ping Pong. Bullshit, continua a gridare ancora più forte, mentre io mi giro attorno e ho paura che ci prendano per pazzi! Bullshit, Man, Bullshit Man. Continua: “Fesserie, stupidaggini”. La serata finisce piacevolmente, ci scambiamo i numeri, ci salutiamo. Abbiamo bevuto entrambi: “Tu nero e gay, io clandestino, siamo noi New York, siamo noi la vera America!”

 

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Piero Armenti

Journalist, Writer, NY Urban Explorer

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